Lettera di K., Cibo e compulsione

Cara Ameya, ho letto ciò che hai scritto sulla dipendenza da cibo e le correlazioni con la dipendenza affettiva. A me non è del tutto chiaro questo.

irene ferri - abbuffata - per Ameya Canovi
Copyright ©️ Irene Ferri

C’è confusione. Mi racconto così faccio chiarezza:

Sono convinta che ci sia anche una forte componente fisiologica e addirittura genetica. Per esempio a me certi cibi creano compulsione, altri no. Ho notato che devo star attenta al picco glicemico, ai cibi che creano tossicità nel mio corpo, trovando una forte correlazione tra essi e la compulsione. se sono stressata il corpo tende a cercare cibo per carburarsi, e la mente è più incline alle abitudini, perdo il centro….Infatti, quando sono riposata e centrata riesco a osservare il corpo che tenderebbe a richiamare i cibi compulsivi, a cercarli come una  droga. A volte capita che neanche ci pensi ma inizio a mangiarli e non riesco più a fermarmi. Se sono in uno spazio di consapevolezza, quindi non in stress, mi capita o di non iniziare a mangiarli e riuscire a spostar la mia attenzione su altro o di iniziare a mangiarli ma riuscire a fermarmi…

Essere consapevole di questo mi ha aiutato molto nel diminuire i rischi di abbuffata e di conseguenza ad essere più lucida nella mia vita. E ho iniziato ad aprire le porte per non essere dipendente economicamente (e quindi affettivamente?) dai miei genitori e a non essere nel bisogno. E’ la situazione di malessere che mi induce l’abbuffata, che mi crea una mente non lucida, depressione, mancanza di fiducia in me…quindi bisogno dell’altro…

Questo è chiaro. Ancora non riesco a vedere perché non riesco a togliere completamente questo “sintomo” dalla mia vita…è un alibi? Il mio “io” condizionato è legato a un forte ricordo di bisogno non soddisfatto, di affetto-cibo, dai miei genitori?  E’ un circolo vizioso? E’ un profondo spostamento di oggetto affettivo da qualcos’altro – al cibo? Questo lo dico perché se per un po’ riesco a star lontana dai cibi e dai comportamenti compulsivi e addirittura non mi viene assolutamente di far alcuno sforzo per riuscire, arriva un momento in cui, come in ipnosi ci ritorno, come se fosse l’unico modo che conosco per sopravvivere.

Ma ormai è chiaro in questo corpo mente, con la meditazione, che non ho bisogno di quel modo, anche perché, non c’è nessun “io” che deve sopravvivere……e che non c’è nessuno che agisce ma che la vita agisce attraverso questo corpo…

La psicologia sta nell’”io”… lo so bene, in quanto psicologa, ma questo punto di vista imprigiona l’essere in un “io” bisognoso…a “me ” è chiaro questo…infatti raramente ormai sento il vuoto affettivo. L’amore è in me, nella relazione con l’altro, con il mio compagno del momento, ma anche con amici e amiche, sento fortemente che accade la condivisione di questa meravigliosa sensazione che nasce dal petto e che irradia tutto il corpo e il corpo dell’altro e lo spazio attorno… quindi svanisce il bisogno di un altro e soprattutto, questa sensazione la sento, anche se sto sola. Anche ora, mentre scrivo.

Riconoscere questo mi ha portato, negli ultimi anni, ad aver sempre meno momenti cosi aridi e vuoti, nei quali c’era un bisogno di cibo per scaldare il corpo sconnesso da una sorgente di amore.

Ultimamente mi accade di sentire il vuoto nel momento di un distacco, magari il primo impulso, per abitudine, è di mangiare… posso anche iniziare ma poi mi fermo. Come ho detto sopra, questo accade quando sono riposata, non sto in stress. Quando son stanca o ammalata, mi torna l’ansia, il vuoto, come pure sensazioni in cui sto scomoda e per abitudine faccio fatica a starci e accettarle e quindi torna l’abitudine a trovare nel cibo una stampella…

Non solo. A volte accade una nostalgia della sensazione di malessere che mi dà l’abbuffata … come se l’abitudine ad averla fosse parte di questa illusoria identità…

Lo vedo chiaro… ma, nonostante molti momenti non abbia bisogno di questo vecchio soprabito, in altri sembra l’unico modo per vivere…

Quindi realizzo che nell’insieme di questa vita c’è appiccicata questa etichetta e ora che ne sono stanca mi ci sento imprigionata… vedo ancora come condizione la realizzazione dei miei talenti e …che questo mi impedisca  la lucidità del tutto… o forse la lucidità mi spaventa…ma questo da un punto di vista mentale…nell’amore, questa paura svanisce…

Grazie dell’ascolto, cara Ameya, rimandami, se vuoi, quel che ti arriva leggendo quanto ho scritto. Mettilo pure sul blog, forse può esser utile ad altri.

Un forte abbraccio

K.

Risposta

Cara K. grazie per questo fotogramma che ci regali.

La tua formazione di psicologa ti permette di analizzare da fuori e da dentro ciò che ti accade; essendo anche una danzatrice conosci bene il corpo e le sue motivazioni. Infine pratichi la meditazione. Sei molto consapevole. Tuttavia come ci racconti, liberarsi di questo “sintomo”, la compulsione col cibo, resta difficile. Nonostante tutto…

Quel soprabito, come lo chiami tu, lo indossi ancora, saltuariamente. Perché? mi chiedi, ti chiedi. Credo tu abbia fatto un’ottima analisi, e c’è molta umiltà anche in quello che dici. Occorre molto coraggio per restare nudi di fronte alla propria verità, a ciò che semplicemente si È, senza giudizio, vergogna o senso di colpa. Posso solo aggiungere, per quello che osservo nei compagni di strada che come te condividono con me, che c’è un’abitudine al sintomo.

Una sorta di IDENTIFICAZIONE. Uno script a cui ci affezioniamo per assurdo, e che, sebbene diventato un automatismo, ci ha permesso però di funzionare in qualche modo fin qui, salvandoci dal non esistere…Il problema è toglierselo questo vestito. C’è molta paura…la mente va in panico e si chiede: Se io non sono più quella che non mangia, quella che soffre per Lui, o che ha bisogno di “farsi” di carboidrati ecc…CHI SONO?

È in questa identificazione, questa nostalgia a lasciare questo vecchio abito che occorre trovare un’alternativa, un vestito nuovo. Come? CREANDOTI la vita che ti piace, usando la tua creatività per fare altro…infatti hai collegato il tutto al fatto che ancora non hai espresso al massimo i tuoi talenti.  C’è molta onestà nella tua lettera. Non perché si è psicologi, medici o meditatori si è immuni dalla dipendenza dal cibo, da Lui o da altro…Sono certa che sei on the right path…ti abbraccio con gratitudine.

Ameya

8 commenti su “Lettera di K., Cibo e compulsione”

  1. trovo interessante leggere il tuo blog.
    Il problema è di ampio contesto.
    Ripasserò spesso anche perchè le esperienze personali possono essere d’aiuto agli altri.
    Un saluto domenicale
    Ciao

  2. cara Mapo, per mia esperienza dare troppo può essere equivalente di non dare niente. Mi spiego. In entrambi i casi manca l’ascolto dell’altro…deprivare o ingozzare sono due estremi in cui il vero bisogno dell’altro non viene visto. Rifletti sulla tua attitudine con tua figlia. Solo tu puoi sapere se ciò che fai lo fai “vedendo”lei o se attraverso lei cerchi di aggiustare te stessa da bambina..in questo caso chiedi a lei cosa vuole…a volte crediamo di dare cose che sono importanti per noi stessi, che avremmo voluto..mentre l’altro vorrebbe cose diverse. in questo modo la relazione tra te lei è filtrata dalla troppa attenzione data a quale cibo darle per merenda. L’ascolto vero presuppone essere in contatto con se stessi e con l’altro.
    Spero di averti dato uno spunto di riflessione
    Ameya

  3. ..Cara Ameya, ti chiedo un consiglio riguardo all’abbondanza e al benessere.. Guardando il mio cammino, vedo quanto tempo abbia passato e sprecato vivendo per quantificare il cibo, tra angosce e ossessioni.. La mia mamma è sempre stata una persona inaffettiva, dedita al lavoro per tirare avanti la famiglia in mancnza di un marito, morto quando io avevo solo 12 anni.. Purtroppo, non mi rimangono molti ricordi, ma vivido nella mia mente rimane quello della invidia che provavo rispetto ai miei compagni di scuola.. Avevano così bei vestiti loro,e a merenda, mangiavano prelibatezze per me.. Ora, sono adulta e a distanza di parecchi anni, cresco mia figlia non facendole mancare niente(per quanto mi sia possibile), e a merenda ha sempre qualcosa di diverso e delizioso.. E più importante le ricordo il mio amore ogni giorno! Chiedo a te.. E’ giusto il mio comportamento.. Grazie Mapo

  4. Grazie Klara per il tuo punto di vista. hai colto un aspetto importante. Quello socio-culturale. Ogni cultura ha i suoi modi di esprimere il disagio, i popoli parlano storicamente di sé attraverso l’arte, la letteratura…anche la malattia può essere forma espressiva…bella riflessione. Resta di fondo un disagio diffuso..qui. Ora cosa possiamo imparare? Come possiamo interpretare il sintomo e leggerlo in chiave funzionale per noi stessi e chi verrà?
    Cosa è da rivedere, integrare ampliare? Recuperare? Spesso si perde la direzione, il senso della propria esistenza e del collettivo…La comunità terapeutitca ha il compito , tenuto conto di TUTTO, di poter sostenere chi si esprime attraverso questo linguaggio. grazie
    Ameya

  5. Non sono nata in Italia. Ci sono giunta alcuni anni fa, gia’ ventenne.
    Certi tipi di disturbi alimentari, di cui tu scrivi nel tuo bel blog, io li ho conosciuti solo in Italia perche’ alcune amiche e colleghe me ne hanno parlato, oppure perche’ ho assistito a discussioni in TV.
    Sono sempre rimasta sbalordita: immagina una ragazza che proviene da un paese dell’ est, cresciuta in un sistema in cui, gli ultimi tempi prima della caduta del muro, per avere una salamino o qualsiasi altra cosa, si doveva fare la fila munita di tessera e dove il cibo, quindi, rappresentava una conquista vera e propria.
    Mi sono sempre chiesta se questo tipo di disturbo non fosse, in parte, anche un prodotto dell’abbondanza e del benessere.
    Buona giornata. 🙂

    Klara

    http://chiara-di-notte.blogspot.com/

  6. Sissiluna mi hai amozionato nel leggerti, perchè mi sono ritrovata in una descrizione precisa e dettagliata. Mi sono letta, e nello stesso momento, conosciuta un pò meglio. Aggiungo x me anche un vero innamoramento che provo oltre il sentimento più negativo, una presenza sostitutiva del mio essere pensante che mi stringe a se soostituendo qualsiasi altra forma di rapporto. ..tutto è nel trovare il nostro vero sè e imparare ad amarlo, imparando a conoscersi.. credo..

  7. Già Sissi…il solito giudice interiore…
    Accettazione..per fare questo passaggio..amore per sè…e disidentificazione…
    un abbraccio

  8. …non credo basti capire, ahimè! Certe sensazioni devono impadronirsi di noi, rubarci l’anima..è un livello diverso, quello del “sentire”..non quello del razionalmente comprendere.
    Questo, almeno, è valido per me..che in anni di psicoterapia di vario indirizzo mi sarò posta la tua domanda milioni di volte.
    La consapevolezza, almeno per me, aiuta..ma è solo il primo passo verso la libertà dalle compulsioni e dalle ossessioni.
    Bisogna poi desiderare uscirne…e non con la testa…ma con tutto il nostro essere. Sembra la stessa cosa..ma non lo è.
    Credo che la patologia sia infatti il nostro boia..ma anche il nostro rifugio. Ce ne vorremmo liberare…crediamo di desiderarlo con tutte le nostre forze,,ma fin quando ci ricadiamo..è perché essa rappresenta comunque una sorta di campana di vetro, ed anche il capro espiatorio di tutte le nostre sventure.
    In assenza della “patologia”…c’è il duro lavoro..c’è la nudità del nostro IO..che, almeno per me, è la VERA BRUTTA BESTIA.
    Siccome non ho il dono della chiarezza..mi spiego con le parole di K che cascano a fagiolo!!!!Quando dico che la patologia è la nostra campana di vetro..intendo proprio questo: “A volte accade una nostalgia della sensazione di malessere che mi dà l’abbuffata … come se l’abitudine ad averla fosse parte di questa illusoria identità…
    Lo vedo chiaro… ma, nonostante molti momenti non abbia bisogno di questo vecchio soprabito, in altri sembra l’unico modo per vivere…” Descrivi perfettamente l’ambivalenza che io vivo..l’amore e odio verso la compulsione. La difficoltà nel trovare risposte autonome e sane ai propri bisogni. La ragione delle mie ricadute..verso il cibo (ma ora non più!!!!) e verso le relazioni dannose.
    Non sapevo come descrivere questa sorta di “canto delle sirene”..che a distanza di mesi di prolungata “astinenza”..mi risucchiava a sé. Ho sempre creduto fosse una sorta di attrazione demoniaca legata all’autolesionismo..invece..era un atto di amore: NOSTALGIA è la parola giusta. Perché nella compulsione io continuo a proiettare ancora…sentimenti di amore.
    aggiungo..(ora chi mi ferma più? aiuto ho un attacco di logorrea scritta!) che fondamentale per uscire dal sintomo è il perdonarsi…la fase di odio infatti scatta nel momento in cui ci si condanna per esservi ricadute. E l’odio non fa altro che concentrare l’attenzione sul sintomo, drammatizzarne i rituali, e architettare vere e proprie strategie di “intervento riparatore”..che tengono la mente ancor più ancorata al sintomo. La telefonata o l’sms che scappano in un momento di fragilità..il farsi fuori una sera una scatola di cioccolatini..non recherebbero in sé alcunché di drammatico..se poi la nostra attenzione fosse distolta altrove..e ci sentissimo pronte a recepire il messaggio di fondo del nostro IO e ci perdonassimo con amore di essere state fragili. Non perdonandoci invece, subito la nostra mente decolla verso le anticipazioni, i calcoli maniacali, le strategie del rimedio: ” oggi ho sbagliato di nuovo. Mi faccio schifo perché ho ceduto. Ma domani sarà diverso. Domani DEVO riuscire a dirgli NO..domani starò a dieta ferrea tutto il giorno..” e PAMMETE!
    L’anticipazione, l’autonormazione, l’impartirsi lezioni severe come fossero genitori di noi stesse…ci fanno naufragare…
    Sissiluna

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