LA POZIONE.

Racconto di un’evocazione di Monica Spinelli

Copyright © Irene Ferri

Mi sentivo ad un passo piccolo, forse malfermo, ma comunque possibile, dall’essere amata dall’uomo bambino. Quello che da sempre amavo. Fu così che decisi di esplorare il mondo in cerca della Pozione per farlo mio per sempre. Conobbi stregoni e streghe, riti sacri e profani, uomini della medicina e vecchi ultracentenari.

Africa, Messico, India.
Infine un piccolo uomo seduto in un angolo di una strada del Cairo, mi
guardò così intensamente da farmi girare di scatto, con un suono sinistro
del collo, che mi fece male per giorni.
Il suo sguardo ed alcune ferme parole in una lingua antica, che mi parlava
al cuore e non alla mente.
“Ho io ciò che cerchi. In cambio, dammi i tuoi occhiali, che io possa di
nuovo vedere le erbe e le antiche scritture, che mi guidano nella
preparazione delle mie Cure”.
I suoi occhi, al contrario di cio’ che mi palesava, erano acuti, di aquila,
e mi passavano da parte a parte.

Osservai la semplice bottiglia che mi porgeva e il suo contenuto ambrato.
Sfilai d’un gesto lento gli occhiali, glieli pulii e glieli porsi senza
proferire parola.
Lui mi costrinse a piegarmi per prendere la bottiglia. Mentre me la porgeva
con l’altra mano afferrò la mia e mi sussurrò con voce mista tra dolcezza e
crudeltà,  in un modo che non saprei spiegare, sii saggia.
Il contatto e il tono mi fecero rabbrividire. E nel contempo sentii un
calore, simile alla fiamma di un camino, al collo e al petto.
Evitai di strapparmi da quella stretta, temevo potesse cambiare idea. Ero
certa la Pozione funzionasse. Me lo diceva un istinto che, giorno dopo
giorno, durante il mio viaggio, si era acuito nella solitudine e negli
incontri.

Sciolsi con tutta la dolcezza di cui ero capace in quel momento la mano
dalla sua presa e mi toccai la fronte in segno di saluto. Allora sorrise.
Un sorriso che non dimenticai mai più. Denti a tratti e gengive nerastre e
un ghigno soprattutto ininterpretabile.

Mi alzai, la testa girava. Il caldo di quel giorno o forse, l’emozione.
Mi incamminai voltandomi ogni tanto. Lo vidi sfilarsi dalle grandi tasche
deformate, una bottiglia apparentemente uguale ed ambrata. Posò lo sguardo
su un uomo alto e sperduto e sentii distintamente il collo di quell’uomo
schioccare.
Accelerai il passo. Dopo diversi giorni di un viaggio che scelsi volutamente lento giunsi alla mia dimora.
Avevo viaggiato con la bottiglia stretta intorno alla vita, fasciata, nel
terrore di romperla. Protetta come un figlio. Come un diamante di enorme
grandezza. Come un sogno.

Scrissi al mio uomo bambino che ero tornata. Mi rispose che gli ero mancata.
Di passare a trovarlo. Ma non v’era la vibrante emozione dell’Amore nelle
sue righe. Solo un affetto potente.

Mi preparai con cura. Il mio corpo era scurito dal viaggio, lo spalmai di
idratante, quello che piaceva a lui. Raccolsi i cappelli sbiaditi dal sole.
Vestii un abito comprato in Marocco. Ed uscii.
Incontrarci fu emozionante per entrambi. Non riuscivamo a trattenere un
sorriso idiota e, anche se dentro io sentivo un’ansia dilaniante, rivederlo
dopo tanti mesi, per me era così bello che scioglieva la tensione.

Gli dissi: “ti ho portato un regalo. Bevi, è un antico liquore.”
Lui guardò attento la bottiglia.
Dentro, risuonavano le parole dell’uomo del Cairo. Sii saggia.
E se fosse stato un veleno? Se pur portandolo ad amarmi lo avesse reso
infelice?
Se lo avesse cambiato il mio uomo bambino, reso diverso, sacrificato nella
sua fantasia, nella sua forza, nel suo appassionarsi?
Cominciò lentamente ad aprirla.
La appoggiò sul tavolo e si girò per cercare i bicchieri adatti.
Io la afferrai, girai la testa all’indietro e la bevvi in un unico solo
gesto, fluido e disperato, fino all’ultima goccia.

Bevevo e piangevo.
Lui mi guardava stupito. Preoccupato.
Il liquido era dolce di miele come me lo ero immaginato. Con una vena amara
di fondo, nascosta.
Mi ascoltai.
Il cuore impazzito pian piano si tranquillizzò. Non sarei morta sul colpo.
Lui mi guardava in cerca di una spiegazione.
Poi disse “ho capito perché l’hai bevuta tu, improvvisamente sei ancora più
bella”.
Non mi staccava gli occhi da dosso.
Mi sentivo tranquilla e mi sentivo, in effetti, bella. Piena e solare.
Gli feci una carezza sul viso leggera. Gli dissi “non chiedermi o mentirei”.
Lo salutai abbracciandolo. Stavolta erano i suoi occhi che sembravano velati
dal pianto.
Lo salutai abbracciandolo. Con forza. Per un tempo interminabile.

Tornando verso casa sentii una voce dentro la mente, in una lingua antica, inequivocabilmente dolce questa volta.
“Allora hai capito?”
Sorrisi.
“Solo dopo aver bevuto, credevo di morire, e invece sono rinata…”
La voce mi accarezzò. Disse “Lo so. “Bevendo mi ero innamorata di me stessa.

Monica Spinelli