Caro lettore e cara lettrice,
ci eravamo lasciati per la festa degli innamorati, e ci ritroviamo inguaiati.
Dopo due anni durissimi, assistiamo a un nuovo massacro, questa volta non è un virus che causa una malattia potenzialmente mortale. O meglio, in realtà trattasi di un altro virus, ben più letale; quello della guerra.
In entrambi i casi, siamo stati aggrediti. Senza poter scegliere. Ci sentiamo impotenti, ancora di più che per la pandemia perché, almeno lì qualcosa dipendeva dai nostri comportamenti. Se ci fossimo adeguati ai dispositivi protettivi, avremmo avuto meno probabilità di ammalarci. Qui non possiamo fare NULLA, nelle prese di decisioni noi sentiamo di non contare. Possiamo manifestare per la pace, ma vediamo bene che chi è al potere ha una scala di valori ben diversa dalla nostra.
Nel primo caso, dal virus, potevamo provare a difenderci adottando alcune precauzioni. La scelta di fare, continuare, e bombardare non dipende da noi.
Non ho nessuna preparazione per fare analisi geopolitiche. E credo fermamente che a parlare su temi specifici debbano essere persone che hanno una competenza in quel campo.
Io mi occupo di confini relazionali, di rapporti amorosi. La geografia con cui ho a che fare ogni giorno è quella emotiva, affettiva.
Da un punto di vista psicologico, ecco alcune osservazioni.
Ciò che accade a livello sociale è uno specchio di quello che accade a livello intrapsichico, dentro di noi.
La guerra agita fuori, è una manifestazione di un conflitto che spesso abbiamo anche in noi stessi e che proiettiamo all’esterno. Quante volte, se ci facciamo caso, non siamo contenti, non ci piacciamo e non ci piace la nostra vita, e usiamo l’altro per gettargli addosso la nostra insoddisfazione, le nostre frustrazioni?
Certo, non abbiamo invaso noi con i carrarmati i territori altrui. Non è nostra responsabilità quello che fanno altri. Ma il meccanismo di sterminare con furore l’altro deriva da una frustrazione che, in questo caso, non colpisce solo il partner, ma milioni di anime.
E qui mi fermo.
Cosa possiamo fare, quindi, in questa situazione, per noi stessə?
Siamo dentro a problemi che si manifestano a scatole cinesi, e non ne vediamo forse la fine.
L’unica possibilità che abbiamo per restare centrati è cercare, dentro, un luogo calmo in cui sostare, e da lì guardare.
Al centro del ciclone c’è un punto fermo, dove non accade nulla, da cui possiamo osservare, senza farci trascinare sott’acqua.
Ci invito perciò a portare la nostra attenzione ai dettagli.
Più siamo travolti da un cataclisma, più ciò che aiuta è focalizzarci sui rumori impercettibili.
Ad esempio possiamo fare caso al canto di un uccellino che indisturbato continua a cinguettare, guardare un fiore che continua a sbocciare, imperturbabile, o sintonizzarci col suono del vento tra gli alberi. Assaporare un tè caldo, mentre ascoltiamo il nostro respiro.
Facciamoci caso alla vita, prima che qualcuno ce la strappi di mano.
La spiritualità, che non ha nulla a che fare con la religione, è una dimensione che reclama la nostra cura in questo momento. Abbiamo trascurato pezzi di noi, persi per strada, immersi in un logorio incessante.
Più c’è frastuono, più è necessario il silenzio.
Le immagini di guerra a cui siamo sottoposti ora in maniera intensa sono insulti sensoriali, morali, emotivi, tragici e violenti.
Noi, invece, possiamo rispondere con bellezza, empatia, umanità.
Aiutiamo se ne abbiamo l’opportunità, nella misura in cui ci è possibile.
Per essere in grado di portare sollievo ad altri, tuttavia, è necessario fortificare noi stessi.
Annegare nei sensi di colpa non è utile, mai. Portare pesi per altri, nemmeno.
Per riuscire a soccorrere è indispensabile, prima, nutrire parti essenziali e vitali di noi.
Iniziamo a rendere fertile la nostra vita, anche se non ci sono certezze. Doniamo un sorriso, solidarietà, pensieri sereni in mezzo alla tempesta.
Ricordandoci di fare tutto questo prima per noi, allora i nostri gesti saranno veri.
Non riusciremo a essere di nessun aiuto se non accogliamo le nostre parti profughe, in fuga dai bombardamenti dei nostri pensieri negativi.
Costringersi alle informazioni continue è violento, a meno che non lo si debba fare per lavoro.
Selezioniamo le fonti di cui ci fidiamo, non lasciamoci sommergere da una informazione a caso, senza il rigore dell’attendibilità e della professionalità.
L’ansia scatenata da questa situazione è umana, così come la paura. Chi sta gestendo la situazione ora ha un suo disegno, è guidato da motivazioni che non coincidono con nessun altro. È solo, ma ha potere.
Dentro alle nostre cornici interpretative è difficile dare spiegazioni, e contemplare tali atrocità.
In più ci sono due fattori aggravanti: eravamo già stremati dalla pandemia, e le vittime di questa guerra le percepiamo molti simili a noi, la vicinanza geografica incentiva l’empatia, molto di più se a confliggere sono culture percepite molto distanti da noi.
Lasciamo il peso della responsabilità a chi commette crimini.
Noi abbiamo il dovere della nostra vita, finché ci sarà possibile aggiungere bellezza, facciamolo. E da questa bellezza portiamoci in giro, facendo ciò che possiamo. E lasciando invece a chi di dovere, il resto.
Come spesso ho detto, il controllo è un’illusione.
La storia ci sta insegnando che eravamo seduti comodi nelle nostre certezze, illusi di poter programmare, controllare. Non possiamo né prevedere, né pretendere. La vita non ci deve niente. Siamo noi a doverle rispetto.
Possiamo fluire, arricchire, contribuire.
Dal centro del ciclone, vi mando un abbraccio immenso.
E una canzone. Si chiama “Alla guerra”, è di un gruppo dell’Appennino tosco emiliano dove vivo.
È cantata in dialetto, è stata scritta tanto tempo fa ma è molto attuale..
Potete ascoltarla QUI, se vi va.
A Presto, un abbraccio
Dott.ssa Ameya Canovi