Elisa e la crisi di panico

crisi-di-panico
Copyright ©️ Irene Ferri

Riporto qui un commento all’articolo Ansia e attacchi di panico: perché accadono e come gestirli (che ho recentemente scritto per Redacon – Il Giornale online dell’Appennino reggiano). Lo trovo più significativo dell’articolo stesso poiché aggiunge verità alla vita.

Grazie ad Elisa Veronesi per la sua testimonianza preziosa che so racchiudere il vissuto di molti.

“Per deformazione esperienziale ogni volta che capito su un articolo, libro, varie ed eventuali dove compaiono le parole ansia o attacco di panico mi fermo e leggo.
Sono un’ansiosa, sì, tipo da molto (non esplicito l’analisi perché ognuno c’ha poi i suoi motivi di ansia, e ce li ha, mica piove dal cielo l’ansia). E sono stata panicosa per un po’ di tempo, e per qualche pezzettino lo sono ancora (la memoria del panico è tipo molto snob, ci vuole un po’ prima di farla diventare un comunissimo e popolare ricordo).

Ogni volta che ritrovo queste parole mi sembra di essere ancora lì a cercare la “spiegazione”, e ogni volta poi alla fine mi ricordo che non è la spiegazione che ci serve. È un bel ripasso che faccio ogni tanto.

Così ieri sera mentre c’era troppo caldo per accendere la luce e leggere, e siccome con il cellulare si ovvia a questo problema, mi sono detta che vabè non c’era niente di male a fare un allez-retour social prima di dormire.
E alla fine capito su questo articolo della dottoressa Ameya G. Canovi (che non taggo solo perché non mi piace taggare, e magari uno non ha voglia di essere taggato, giustamente, ma che ringrazio molto per il suo articolo) (…e che taggo infine, dato che l’ha domandato, giustamente).

E leggendolo, la prima cosa che mi è venuta da pensare è che se tutte le volte che sono stata chiusa in auto a piangere, urlare, soffocare, una psicologa in bicicletta avesse bussato al finestrino, beh, tanta tanta roba. Non riesco neanche a immaginare. Tipo un film, un sogno.

Perché una delle cose che succedono quando il panico arriva (perché il panico arriva, come qualcuno che si avvicina e poi te lo trovi davanti, vicinissimo) è che tu sei solo, ma non solo, solissimo, sei tipo sulla luna, e anche se c’è qualcuno di fianco a te (che non sa o non è psicologo o non si accorge) sei solo, ma di una solitudine inspiegabile (molte persone parlano infatti di “paura di morire”).

L’altra cosa che succede, come si dice nell’articolo, è la vergogna. Oh sì, la vergogna. Sei tipo in continua allerta perché “gli altri” non devono accorgersi, non devono sapere, mai.
Io ogni tanto, in auto, in coda per andare o tornare dal lavoro, ferma in un parcheggio perché non potevo più guidare, ferma lungo il ciglio della strada, me lo chiedevo, cercavo quasi, e mi dicevo, ma che cavolo, ma non c’è mica nessun altro che c’ha un attacco di panico, ma è mai possibile che sia l’unica ad avere questo formicolio all’addome, alle mani, ai piedi, l’unica a dover chiamare i suoi genitori, che da Castelnovo son dovuti venire a Reggio a prendermi, perché io non riuscivo a muovermi.

Brutta bestia la vergogna.
Che delle volte poi basta guardarsi intorno, neanche troppo lontano, per scoprire che sì, magari al collega o alla collega succede la stessa cosa, o all’amica, o alla madre di un’amica.
Eccome se succede.

E così sorridevo ieri sera, nel caldo, perché ormai quando ci ripenso ci sorrido su, e pensavo se quelle volte che ero bloccata in un parcheggio con le gambe alzate per non svenire (complicato in auto, ma i panicosi pro imparano un sacco di tecniche per far fronte agli attacchi, tipo contare all”indietro, leggere le targhe delle auto, le insegne dei negozi, respirare con l’addome, rilassare i muscoli del visto, fare un body scan dall’alto al basso, io avevo anche imparato a fare fotografie, ho un sacco di foto con l’abitacolo e gli alberi, un parcheggio, un incrocio) ecco se quelle volte che ero chiusa in auto nel caldo, fosse passata una psicologa in bicicletta, diciamo che ci avrei forse messo un po’ meno a saltarci fuori, o forse no, ma diciamo che in quel momento qualcuno che ti tende le mani ti salva anche un po’ la vita, perché il panico è immaginazione della catastrofe, ma un’immaginazione molto realistica e una grossa sofferenza, psichica e fisica.

Tendere le mani alla sofferenza, questo è un bel gesto, reale.”