Rinascere dopo

10808385_10205232174514295_127574599_nQualche tempo fa una persona mi disse “sai perché il bambino piange e urla quando nasce e gli viene tagliato il cordone ombelicale? Perché per iniziare a respirare da solo, deve imparare a far funzionare i polmoni, e quando gli manca il fiato ed inspira la prima volta, prova un dolore indicibile. Mentre i polmoni per la prima volta si espandono e gli danno la possibilità di essere autonomo, abbandona quello che è stato fino ad allora, ovvero qualcuno che respirava, si nutriva, si muoveva solo grazie a qualcun altro”.

In quel momento, ho provato quello stesso dolore, e come mi accade a volte, la vita mi si è riavvolta davanti come in un rewind improvviso. E ho ripensato a quando c’ero anch’io, in un utero che però, invece di nutrrmi mi stava uccidendo lentamente. E ho provato un’infinita commozione. Perché tagliare quel cordone ombelicale è stato faticoso, doloroso, ma mi ha permesso davvero di rinascere. Provo a raccontarla, qui, la mia rinascita.

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Sono a cena, siamo in tanti, è una di quelle serate che scivolano tra battute e risate. Sono tornata da poco da un viaggio che mi ha dato molto, sono emozionata, felice, serena. Davanti a me, nella tavolata, c’è un posto libero. Parliamo, ridiamo, mangiamo poi sento un ciao è libero questo posto? Mi giro dico certo. Si siede davanti a me un tizio. Dopo un po’ iniziamo a chiacchierare. Vede l’accendino che ho sul tavolo, souvenir del mio viaggio. Mi chiede come mai ce l’abbia, si informa sul viaggio, mi ascolta, sorride, interviene. (Che bello, un uomo che ascolta). Poi mi dice sai sono arrivato in ritardo alla cena perché ho accompagnato i miei bambini dalla mamma. Sono separato, ma loro vengono prima di tutto. (Che bello, un uomo per il quale i bambini son importanti e contano più di una cena tra amici). Passiamo la serata a chiacchierare. E decidiamo di rivederci.

Quando sono con lui il tempo scorre fluido. Racconta, racconta tantissimo, butta lì frasi che manifestano il dolore che prova e la fatica che fa, con due bambini e una ex moglie ostile. Chiede di me, mi guarda e ascolta con attenzione. La prima volta che passiamo la notte assieme c’è un momento in cui percepisco qualcosa di strano, mi viene da ritrarmi ma non so perché. Lui se ne accorge subito e mi dice che fai, scappi? E io faccio scappare quella sensazione. E mi riavvicino.

Tasto avanti veloce.

Dopo qualche tenpo sono più le notti che trascorre nel mio letto che nel suo letto, dai genitori, dove è tornato dopo la separazione. Conosco anche i suoi figli, piccoli, bellissimi. Viviamo assieme, io entro nella loro vita con calma, apprezzo moltissimo che disegni questa loro nuova vita con la delicatezza di un artista di miniature. Una pennellata alla volta. Dopo quasi un anno è proprio suo figlio (cinque anni) a chiedergli perché non mi chiede di fidanzarci, di farmi da cavaliere, di proteggermi. Cogliamo l’occasione al volo. Ridendo e giocando iniziamo a fare i fidanzati, (anche)  davanti a loro.

Tasto avanti veloce.

Per lavoro spesso è in trasferta. Quando torna a volte è nervoso. A volte di notte ha incubi, si raggomitola, urla, piange. Capita che passiamo serate coi suoi amici e tutte le volte finisce che si beve parecchio. Capita che passiamo serate e nottate a parlare di lui, dei suoi nodi, delle sue paure. Ho letto molto, mi piace anche la psicologia, offro spunti, faccio ricerche. Mi ripete spessissimo che sono il suo regalo. Nei momenti di “stanchezza” invece, che sono tutta sbagliata. Se la prende con me. Per qualsiasi motivo. Ho letto “Donne che amano troppo”, vedo che c’è qualcosa che non va, ma qualcosa mi trattiene. Lui può uscire dal tunnel. E io ci sarò. Intanto con le sue sfuriate gli amici si allontanano.

Tasto avanti veloce.

Sono passati tre anni. Sono stanca, confusa e triste. Concentrata sul suo mondo e sulle sue ferite. Al lavoro va così così. Dormo poco, ho la mente che non si ferma mai. Quando ci sono i figli da’ il massimo. E’ l’uomo ideale. Ogni volta mi emoziono. Il resto del tempo trascorre tra notti in bianco, urla, richieste di aiuto. Non mi abbandonare. Non mi abbandonare. Non mi abbandonare.
Aiutami.
E la mia risposta è sempre sì.
Un giorno mi dice credo tu meriteresti una famiglia che comprenda anche un figlio da vivere e non  da dividere con un’altra donna.
Siamo una famiglia, pensiamoci.

Non ho mai pensato a questo. La famiglia allargata è faticosa, ma per me è bellissima. Sono una mamma di cuore, più che di pancia. Non ho mai pensato che per esserlo si debba partorire. Ma come sempre, mi sembra che quello che dice sia la sluzione perfetta per me, per noi. E poi… coi bambini non beve mai.

Tasto avanti veloce.

La sua dipendenza dall’alcool preme. Peggiora. Non regge lo stress. Qualsiasi occasione è buona per urlare e andare  a bere. Il mondo ce l’ha con lui. Diventa sempre più aggressivo. Io sono l’ombra di me stessa. Stiamo traslocando, sono incinta di 32 settimane e vado a riprendermelo, guidando di notte in una caserma a 300 km di distanza, dopo che mi hanno chiamata perché gli hanno ritirato la patente, per guida in stato di ebbrezza. Così perde anche il lavoro. Nasce la bambina è meravigliosa, dorme e mangia. Ma io non la sento. La allatto, la guardo, piango. Non vali niente, mi ripete. Sei inguardabile, mi dice. La bambina piange? Faccio io, ne ho già fatti due. La bambina va cambiata? Faccio io, stai tranquilla, lo so che a te fa schifo. A volte mi toglie la bambina dalle mani. Io so come si fa. Vivo col vento nelle orecchie, come dentro a una tempesta. Non sento nemmeno il dolore. Sento solo vento. Mi sento dentro a una bolla. E in quella bolla c’è la tempesta. Mi sento dentro a un vicolo cieco. A volte è violento. Ho paura. Ho paura che mi faccia ancora più male. Mi dice fai schifo, gli dico allora vai. Mi dice vattene tu. O prova a mandarmi via. Si fa scudo coi bambini. Mi sibila parole indicibili quando ci sono, fino a farmi scoppiare. E io urlo. Sono io la cattiva, sono io la stronza. Ma non mollo. Leggo, mi sento impotente. Non so cosa fare. Ma cerco. Cerco. Cerco qualcosa. Intanto la casa è intestata a me, le spese e le bollette pure. In una famiglia ognuno dà quel che può, no? Tocca a me mantenere me, nostra figlia, lui, i suoi figli quando ci sono. E’ così che si fa.

Tasto avanti veloce.

Nonostante il vento nelle orecchie leggo e mi informo. Non smetto mai. Ne parlo spesso anche con lui. Mi dice aiutami, mi allontana e mi rifiuta, poi mi ripete aiutami.Scopro il mondo di AA, alcolisti anonimi. Gliene parlo, per mesi e per anni mi ripete che lui non è un alcolista, e io una stronza visionaria. Un giorno mi imbatto in un testo curioso. Parla di codipendenza, di dipendenza emotiva, di responsabilità personale. Parla di reazioni, di meccanismi automatici acquisiti. Ci sono testimonianze di persone. Racconti di vita vera. Le leggo e resto a bocca aperta. ci sono io lì dentro. E’ la mia storia. Vado a una serata dei familiari di alcolisti. Cerco una risposta e una formula magica per aiutare lui e salvare la mia famiglia. Mi sento dire che è me che devo salvare, curare e guarire. Sono in apnea. In conflitto. Non mollo. E inizia un altro film. Quello della rinascita.

Poi:

Il giorno del “taglio del cordone ombelicale per far funzionare i polmoni” è stato un lasso di tempo lungo. Comprende quello che io chiamo “il viaggio all’inferno e ritorno”. Quello dove con infinite resistenze e fatica e un dolore immenso sono andata un respiro alla volta a guardare le mie ferite. Che non sapevo di avere. A scoprire montagne di dolore molto più antico di quei nove anni passati ” col vento nelle orecchie”. A scoprire, con uno stupore infinito, che avevo semplicemente riconosciuto dei codici, e cercavo di mantenere un “equilibrio” che conoscevo. E che quel tentativo di salvare quello che era il mio uomo, e il padre di mia figlia, sopportando l’indicibile, non aveva senso. Era, in verità, il tentativo di dimostrare a me stessa che “esistevo”, mantenendo l’ottovolante delle emozioni che avevo respirato durante la mia infanzia.

In questo viaggio all’inferno ci sono andata e tornata accompagnata da persone che mi hanno guidata, ascoltata, compresa, abbracciata, aspettata. Che mi hanno messa davanti a uno specchio dove ho potuto veder riflesse le mie ferite e anche il mio valore, i miei pregi, la me stessa più completa, e vera.. Che mi hanno insegnato a perdonarMI, a lasciar andare e ad avere fiducia e poca fretta. Mi sono fidata e affidata. Ho messo da parte l’orgoglio e la paura. Ho accarezzato il giudice implacabile che sta dentro alla mia testa, ho imparato a riconoscerne la voce. Ho imparato a guardarmi con gentilezza. So che mi devo un grande grazie per aver avuto il coraggio di alzare gli occhi e guardare in quello specchio e non mollare. Perché non è una bella visione, soprattutto all’inizio. So che devo un grazie grande all’universo che mi ha messo a fianco i segni giusti, al momento giusto. E uno grande enorme alle persone che mi hanno tenuto la mano, con professionalità e amore, compassione e rispetto, senza mollare mai perché senza di loro non avrei cambiato il mio sguardo. Che si è addolcito e accarezza.
Lucia