IL SUICIDIO. VIA DA QUI

fiore%20nel%20desertoVia da qui. Troppe persone sembrano cercare la fine della sofferenza togliendosi la vita. E’ una soluzione illusoria. Anche se il dolore può diventare  insopportabile è sempre possibile tornare ad amare la vita, che vince sempre. La comunità può fare tanto in termini di sostegno e presenza.
 
Quando la sofferenza non è più sopportabile, porre fine alla propria esistenza sembra una soluzione. Ma è solo un’illusione. In realtà chi adotta condotte suicidarie chiede aiuto, comunica con tale gesto qualcosa che non è riuscito altrimenti. Per chi resta è un messaggio estremo da dover elaborare, su cui riflettere.  Occorre cogliere i segnali delle persone sofferenti, per cercare una soluzione reale al mal di vivere. La fuga nell’altrove può apparire alla persona che ha perso l’amore per la vita, una soluzione. Chi si toglie la vita tuttavia, non cerca la morte, intesa come la fine della vita. Cerca la fine del dolore. Un dolore che non sa gestire, che spesso viene vissuto in isolamento, in modo sotterraneo. Le difficoltà assumono un peso atroce da portare in solitudine, i fantasmi vengono ingigantiti, e non si trova un codice per esprimerli.


 
Il malessere esistenziale può colpire a qualunque età. La vita può ad un tratto apparire ingestibile, si percepisce di non avere la forza d’animo per affrontare la difficoltà oggettiva o percepita tale. Non necessariamente la persona che si toglie la vita è precedentemente depressa, anche se molto spesso si ha uno stato depressivo latente.
 
La depressione da un punto di vista psicodinamico ha che fare con la rabbia interiorizzata. L’aggressività viene rivolta verso se stessi, ci si percepisce incapaci, non degni, inadeguati. Si vorrebbe urlare al mondo il proprio bisogno, ma se da un lato si avverte una fame immensa di amore, dall’altra ci si ritiene profondamente indegni di essere amati. E l’urlo di disperato  bisogno resta soffocato. Scattano condotte e fantasie autopunitive, mentre all’esterno si continua magari a sorridere docilmente, dentro si coltivano pensieri funesti, di fuga da un dolore profondo, che non si può, non si sa sopportare da soli. Si vive quindi un empasse esistenziale atroce, non si trova il modo di chiedere aiuto, manca la fiducia che un intervento esterno possa alleviare il dolore, e non si riesce dall’altro a reggere il peso di un enorme macigno. Per porre fine alla tortura si vede solo un’unica via d’uscita. Accecati da un male dell’anima lancinante. In realtà la soluzione è possibile.
 
Secondo l’ipotesi neurologica, la persona depressa, o con intenti suicidari, potrebbe avere una carenza o uno squilibrio nel sistema dei neurotrasmettitori, in tal caso un aiuto farmacologico combinato con una psicoterapia mirata, possono aiutare l’individuo a trovare strategie di fronteggia mento che non riesce a trovare ne momento di tragica disperazione.
 
Non sempre ci sono segnali eclatanti, ma bensì sottili. La persona palesemente autodistruttiva non arriva a compiere il gesto estremo, chiede aiuto in modo indiretto con ripetuti  tentativi parziali di auto aggressività. E se l’aiuto arriva in tempo, è possibile recuperare il senso profondo della vita, e dell’amore per se stessi. Se invece la disperazione e la rabbia interiorizzata sono così profonde e silenti, si apprende solo attraverso un gesto irreversibile quanto scorreva nel fiume di pensieri della persona.
 
La valenza di tale scelta può assumere svariati significati per chi la compie: porre fine a un male incommensurabile, comunicare qualcosa che non è riuscito a esprimere in altre parole, punire qualcuno togliendosi e negandosi. Quest’ultimo significato è tipico delle personalità infantili, che non hanno ancora portato a termine la completa maturazione.
 
Se scegliere di togliersi la vita resta un gesto di estrema violenza verso di sé e verso coloro che restano, il significato del gesto può cambiare a seconda dell’età della persona che lo compie.
 
In tarda età può significare la difficoltà di superare un rito di passaggio, una malattia che spaventa e non si immagina di poter affrontare, scegliendo così il ritiro dal mondo.
 
In giovane età denota una sfiducia estrema nel mondo e nelle proprie capacità di affrontarlo. Ci si autoelimina, credendosi non adatti a continuare il percorso, nemmeno iniziato.
 
Se si ha vicino una persona che appare molto severa con se stessa, se tra le righe dichiara un mal di vivere, occorre prestare molta attenzione e non sottovalutare nessuna richiesta implicita di aiuto. Anche se colpevolizzare sterilmente la famiglia o il contesto non serve.
 
Cosa può fare la famiglia? Il sistema sociale, il contesto, per poter sostenere e aiutare le persone che drammaticamente nutrono tali pulsioni, prima che accada l’irreparabile?
 
Captare i minimi segnali, cercando di costituirsi rete. Rete di ascolto, di accoglienza. Se un coetaneo appare schivo, una telefonata in più, il sostegno della comunità, il farsi tessuto intorno. Accade invece che tali persone scivolino via, sfuggano in silenzio agli occhi della società che è occupata da molto rumore per nulla.
 
Talvolta la religione può confortare la disperazione, tuttavia non tutti seguono tale percorso.
 
Le famiglie delle persone che si tolgono la vita devono convivere con sensi di colpa abnormi, rimuginando miliardi di volte un finale divergente. Rimproverandosi disattenzioni, soffrendo per non aver potuto impedire la fuga dal mondo estrema. Il lutto da rielaborare è pesantissimo, non solo per i familiari, ma per tutta la comunità. Ci si sente tutti responsabili, attoniti.
 
Ancora una volta sembra emergere chiaro il concetto di resilienza. La resilienza è la capacità di resistere agli urti della vita. Le persone dotate di tali capacità riescono a superare ostacoli, insuccessi, catastrofi e restare psicologicamente integri. Chi è resiliente attraversa le tempeste e ritrova il sole. Chi non ha il dono della resilienza può tuttavia svilupparla se inserito in un contesto supportivo e incoraggiante.
 
L’uso scandalistico dei media che tutti vediamo perpetrarsi in questi giorni merita una costante riflessione. Pubblicizzare tali gesti allo sbaraglio senza una dovuta cura protettiva degli affetti, dei cari che affrontano lo sconvolgimento che tale fatto comporta, è nocivo alla società. Al punto da poter indurre condotte emulative in persone fragili e scompensate, che trovano nel gesto una provocazione, un guizzo di attenzione, non valutando fino in fondo le conseguenze estreme.
 
E’ necessario non dimenticarsi il rispetto. Rispetto per chi ha deciso di terminare la propria corsa in questo modo, qualunque siano stati i motivi, e rispetto per chi resta. Interrogarsi sui perché dell’umanità in modo costruttivo può educare la comunità a riflettere su quanto accade. Per poter proporre soluzioni diverse e aiutare chi è in difficoltà a sentire il supporto di un gruppo sociale che non  promuove smarrimento e isolamento, ma propone fiducia nella vita. Credendoci.

Ameya Gabriella Canovi

12 commenti su “IL SUICIDIO. VIA DA QUI”

  1. Credo che il piu' delle volte la tendenza al suicidio derivi dalla solitudine e dalla mancanza di comunicazione. chi ha persone vicine verso cui si sente responsabile e con cui ha buona comunicazione credo difficilmente sia tentato al suicidio.. che ne pensi?
    ciao

  2. A volte si dice: ora mi uccido, senza intenderlo.  È un tipo di liberazione e completamente normale.. Quando ti rendi conto che avresti pure la libertà di suicidarti ma sei invece forte per non farlo, fa bene anche dirlo in un attimo in cui senti un peso grande e pensi di non poter più andare avanti.

    Non si trova la fine del dolore con la morte, ma pensarlo può aiutare per ribellarsi e dire: NO, IO SONO PIÚ FORTE 😉

    MAI DETTO "MI AMMAZZO?"…TRA DIRE E FARE…
    Mi spiace per chi in un momento disperato si è suicidato…non è la soluzione…è la fine della vita, e non c'è ritorno per riparare…da vivi invece sì…
    Un saluto 🙂

    Nadia

  3. Ho avuto una esperienza in famiglia. Mio cognato si è tolto la vita lasciando moglie e due figli adolescenti. Vorrei raccontarla, è la prima volta che lo faccio apertamente e mi scuso per l'anonimato.
    Posso dire che chi ha compiuto questo gesto non ha chiesto aiuto a nessuno , parlava con la moglie comunicando un disagio che aveva a lavoro e le aveva chiesto di non parlarne a nessuno. E così è stato. Si sono allontanti da tutti noi (Siamo una famiglia numerosa). Il giorno di natale al pranzo di famiglia era silenzioso ma nulla di più. Era il migliore amico di mio marito e tutti i giorni facevano colazione insieme(anche il giorno chè è morto). Per quanto mi riguarda mi sono risentita per l'allontanamento di mia sorella e del marito ma l'orgoglio ha prevalso.
    Ma poi non ce l'ho fatta più e ho chiamato lei chiedendole se avevo fatto qualcosa e che stavo patendo la lontananza. Era il 12 gennaio 2000, lei ha pianto sfogandosi del disagio del marito. Era troppo tardi….Lo stesso pomeriggio lui è uscito di casa senza orologio, senza borsellino, non ha salutato nemmeno i figli. Lo hanno ritrovato morto in un paese lontano da dove abitiamo. I carabinieri hanno avvisato me e sono stata io a dover comunicare la notizia a mia sorella.
    E' iniziato un incubo. Abbiamo chiesto il silenzio stampa per tutelare i figli e l'indomani mattina la notizia era in prima pagina.
    Abbiamo chiesto l'autopsia ma il suo medico ha dichiarato che era un suicidio perchè si era confidato con lui (non ne sapevamo nulla, neanche la moglie).
    Il giono del funerale mio padre si è sentito  male ed è morto dopo 20 giorni perchè non ha superato un dolore così grande.
    Mia sorella e i figli hanno dovuto sopportare due lutti.
    Uno dei figli, il minore, ha iniziato a soffrire di depressione,. Un anno dopo mia sorella si accorge per caso che il figlio non entrava a scuola da mesi. Abbiamo chiesto aiuto alla scuola, agli insegnati, al preside, ai servizi sociali.
    Ci hanno chiuso le porte; il ragazzo stava male e ha tentato il suicidio, con ricovero immediato in psichiatria. E rimasto un mese..sedato come cura al suo dolore. Come diagnosi psicosi schizofrenica.
    Non ci siamo arresi . La madre l'ha portato a Roma. Finalmente abbiamo avuto un supporto. E' stato inserito in una comunità di recupero per tossicodipendenti e ragazzi con disagio. Mia sorella andava 3 volte alla settimana alle riunioni dei genitori e viaggiava dalla sardegna  2 volte alla settimana per stare con il figlio e accompagnarlo in comunità perchè non dormiva nella struttura.
    Dopo 2 anni non ha voluto proseguire perchè sentiva la mancanza della sua terra ed è tornato in Sardegna.
    Qui non si sono strutture adeguate.
    L'anno scorso ha tentato il suicidio ingerendo dei medicinali.
    Da quel momento per noi è iniziato l'incubo. Ma attraverso l'amore, l'ascolto della sua sofferenza ancora una volta ci siamo rivolti a strutture lontane da noi e viaggiamo per portarlo in terapia e lui ora sta meglio.
    Non abbiamo avuto il tempo per elaborare i lutti perchè dobbiamo avere energie per affrontare i problemi di questo ragazzo.
    Posso dire solamente che non esistono centri adeguati ai ragazzi come lui che ha 23 anni. Che la scuola, i servizi sociali, nessuno aiuta genitori e figli che hanno subito un dolore così grande. Solo il giudizio degli altri che ci rendono sempre colpevoli di quanto è accaduto.
    Vorrei spendere una parola per il medico che ha tenuto in cura mio cognato e che sapeva bene quanto stesse male per averlo dichiarato così apertamente.
    Noi abbiamo le nostre colpe, ma la società non ci ha aiutato e non aiuta mio nipote a credere che ci essere, comunque, una vita migliore. Grazie

  4. Leggendo mi é venuto in mente il vecchio Sofocle dell' Edipo a Colono, la vita é dolore, e la fine dell'una é anche la fine dell'altro.E' solo un' ombra gettata in chiave contraddittoria, ma forse, se anche l'identità fra le 2 cose non é quella perfetta disegnata dal grande tragico, forse perfetta non é neanche la differenza. Per quel "non cerca" può essere incontestabile da un punto di vista logico ma, a conti fatti, acquista un valore più relativo.CiaoFrancesco  

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